Friday 28 July 2017 13:41:04
Giurisprudenza Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 28.7.2017
Nella sentenza del 28 luglio 2017 la Sesta Sezione del Consiglio di Stato afferma che: “La lottizzazione abusiva, per cui è processo, attualmente è prevista in via generale dall’art. 30, comma 1, del T.U. 6 giugno 2001, n. 380; norma che, peraltro, nell’ordinamento non costituisce una novità assoluta.
La prima norma storicamente intervenuta in materia era infatti l’abrogato art. 28, comma 1, legge 17 agosto 1942, n. 1150, che disponeva: “Prima dell’approvazione del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione di cui all’art. 34 della presente legge è vietato procedere alla lottizzazione dei terreni a scopo edilizio”, senza peraltro dare un’esplicita definizione della “lottizzazione”.
Quest’ultima, infatti, compare soltanto nell’art. 18 della l. 28 febbraio 1985, n. 47, in senso sostanzialmente identico alla norma attuale.
L’art. 30 del T.U. 380/2001 al comma 1 prevede dunque che “Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
L’illecito previsto dalla norma ha anzitutto conseguenze amministrative sul piano urbanistico.
In base ai commi successivi dello stesso articolo, infatti, l’ordinanza che accerta la lottizzazione abusiva, come avvenuto nella vicenda per cui è processo, deve disporre l’immediata sospensione delle opere in corso; va trascritta nei registri immobiliari e comporta da quel momento l’impossibilità di disporre per atto fra vivi degli immobili interessati; a pena di nullità degli stessi atti di alienazione, comporta altresì che gli immobili, decorso un breve termine, siano acquisiti di diritto al patrimonio comunale e che l’Ente proceda d’ufficio alla demolizione delle opere abusive.
La lottizzazione abusiva costituisce anche illecito penale, ai sensi dell’art. 44 comma 1 lettera c) dello stesso T.U. 380/2001; nondimeno, in forza del principio di autonomia tra processo amministrativo e penale, nonché tra i relativi giudicati, tale profilo non assume particolare rilevanza ai fini della presente decisione. Ciò posto, la giurisprudenza è concorde nell’individuare che l’interesse protetto dalla norma è, in sintesi, quello di garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell’amministrazione: si vedano in generale, come particolarmente approfondite, C.d.S., IV, 7 giugno 2012, n. 3381, e 19 giugno 2014, n. 3115, nonché Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2013, n. 51710.
In merito, si parte dal presupposto di fatto per cui le scelte espresse nel piano urbanistico generale di un Comune di regola non possano essere attuate mediante il diretto rilascio di permessi di costruire agli interessati, ma richiedano l’intermediazione di uno strumento ulteriore, rappresentato dai piani attuativi.
Il piano attuativo infatti, come osserva in motivazione la citata Cass. pen. n. 51710/2013, ha la funzione di “precisare zona per zona”, con i dettagli necessari, “le indicazioni di assetto e sviluppo urbanistico complessivo contenute nel piano regolatore”, e quindi di attuarle “gradatamente e razionalmente” e di garantire che ogni zona disponga di “assetto ed attrezzature rispondenti agli insediamenti”, ovvero delle opere di urbanizzazione, e tutto ciò, all’evidenza, trascende il possibile contenuto di un singolo permesso di costruire.
In tale contesto, la lottizzazione abusiva, in sintesi, sottrae all’amministrazione il proprio potere di pianificazione attuativa e la mette di fronte al fatto compiuto di insediamenti in potenza privi dei servizi e delle infrastrutture necessari al vivere civile; ciò che, com’è notorio, è fra le principali cause del degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano.
Di conseguenza, sempre secondo Cass. pen. n. 51710/2013, si ha in generale lottizzazione abusiva fondamentalmente in tre casi.
Il primo è quello in cui si utilizzi un suolo libero realizzandovi, in via contemporanea o successiva, una pluralità di edifici – non rileva se a scopo residenziale, turistico o industriale – a prescindere dalle opere di urbanizzazione primaria o secondaria che si richiederebbero.
Il secondo è quello in cui, pur in presenza di opere di urbanizzazione già esistenti, non si tenga conto della necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso una pianificazione intermedia adeguata al nuovo intervento.
Il terzo è quello in cui si violino puramente e semplicemente le previsioni dello strumento urbanistico generale, che non consente, nemmeno per tramite di un piano attuativo, di intervenire in quella zona con le modalità in concreto adottate.
Ciò posto, l’art. 30 individua due modalità alternative fra loro con quali la lottizzazione abusiva si può realizzare.
La prima è quella della cd lottizzazione reale o materiale, la quale si verifica “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
La seconda è quella della cd lottizzazione formale, ovvero negoziale o cartolare, che invece si verifica “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”, ed esula dalla materia in esame, se non altro perché nel caso di specie si ragiona di immobili già edificati, e non di terreni con “destinazione” edificatoria.
Nell’ambito della lottizzazione reale, la giurisprudenza, per tutte le citate C.d.S. n. 3381/2012 e n. 3115/2014, e per implicito anche la pure citata Cass. pen. n. 51710/2013, ha individuato una fattispecie particolare, partendo dal rilievo per cui il concetto di “opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia”, che integra la condotta materiale dell’illecito, va interpretato in base allo scopo della norma che, come si è detto, è quello di salvaguardare il corretto sviluppo urbanistico del territorio.
Di conseguenza, per verificare se il divieto è stato violato si deve guardare non solo e non tanto alle singole opere realizzate, le quali isolatamente considerate ben potrebbero essere assistite ciascuna dal necessario titolo edilizio, ma “alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto”. Può quindi costituire lottizzazione abusiva reale anche il cambio di destinazione d’uso di un complesso immobiliare formato da singoli elementi legittimamente edificati, se in tal modo si è imposto al territorio un carico urbanistico diverso da quello in origine previsto, e tale quindi da necessitare un adeguamento degli standard: nel caso allora deciso, una struttura abitativa era stata trasformata in turistica, realizzando al posto delle abitazioni un albergo con piscina……..La lottizzazione abusiva, infatti, è un illecito di carattere permanente, che continua a sussistere nel tempo in dipendenza dalla volontà del responsabile.
Vale allora il principio, ben noto alla giurisprudenza penale, per cui la condotta di illecito permanente la quale, pur incominciata in un momento anteriore, sia protratta in contrasto con una norma successivamente intervenuta va sanzionata esclusivamente in base a quest’ultima: così, in termini generali, fra le molte, Cass. pen., sez. III, 9 settembre 2015, n. 43597.
In tali termini, non sarebbe allora impossibile reiterare l’ordinanza repressiva.
Di conseguenza, il motivo di appello in esame va esaminato anche con riguardo agli ulteriori profili di censura prospettati all’interno di esso, che sono in grado di procurare una maggiore utilità alla parte appellante.
Come si è detto, per contestare correttamente l’illecito, l’amministrazione avrebbe dovuto anche contestarlo correttamente all’interessato, ovvero prendere in considerazione anche l’elemento soggettivo di esso, e in particolare la possibilità di riconoscere tutela alla buona fede degli acquirenti.
Giova allora ricordare che, come è pacifico in causa, l’abuso fu realizzato dalla società costruttrice, estranea a questo processo, la quale realizzò il complesso immobiliare: la ricorrente appellante si è invece limitata ad acquistare una delle abitazioni così costruite per il proprio uso; e che, ulteriormente, l’originaria ordinanza di demolizione n.77/2008 non risulta essere stata trascritta, con il corollario, da un lato, della sua inopponibilità agli aventi causa nei singoli cespiti immobiliari e, dall’altro lato, della sua inutilizzabilità per desumerne elementi indiziari a riprova dello stato di mala fede degli odierni proprietari. In capo a costoro, anzi, ex art. 1147 cod. civ. “la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”, ma, ovviamente, “la buona fede non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave”.
Ciò posto, occorre tener conto dall’orientamento espresso a partire dalla sentenza Corte europea diritti dell’Uomo, sez. II, 20 gennaio 2009, in ricorso n.75909/01, Sud Fondi c. Italia, nonché dalla successiva Corte costituzionale 26 marzo 2015, n. 49, da cui la citazione che segue, secondo cui, in estrema sintesi, la confisca, intesa come spossessamento del bene, disposta a fronte di una lottizzazione abusiva, ha natura di sanzione intrinsecamente penale e, come tale, anche quando venga in concreto applicata da un’autorità diversa dal Giudice penale, ovvero dall’autorità amministrativa, può essere disposta “solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti”.
Va allora tenuto conto della buona fede dell’appellante, la quale deriva dalla circostanza, in sé pacifica, del suo acquisto per mezzo di un atto pubblico notarile, con le caratteristiche di cui al caso concreto
È ben vero che, in termini assoluti, “l'intervento del notaio non garantisce una sorta di "ripulitura giuridica" della originaria illegalità dell'immobile abusivo” (così la più volte ricordata Cass. pen. n. 51710/2013), se non altro perché l’atto notarile è la normale modalità di acquisto degli immobili, cui si ricorre nella grande maggioranza dei casi, sicché se ad esso si ascrivesse valenza intrinsecamente sanante di ogni illegittimità degli acquisti immobiliari la repressione dell’abuso diventerebbe un fenomeno del tutto eccezionale, limitato ai pochi casi in cui il responsabile della lottizzazione non riuscisse ad alienare gli immobili a terzi.
Nondimeno, per chiarire quando il terzo acquirente, non personalmente responsabile dell’abuso, vada considerato in buona fede, è necessario illustrare in sintesi quale sia, sotto gli aspetti rilevanti, la disciplina di un atto notarile di tal tipo.
Va allora chiarito, in primo luogo, che, com’è pacifico anche nella prassi, il fabbricato risultante da lottizzazione abusiva non è per ciò solo incommerciabile, sicché non c’è un divieto generale e assoluto per il notaio di rogare un atto che l’abbia a oggetto.
Ciò si ricava anzitutto argomentando a contrario dall’art. 30 del cit. T.U. 380/2001: se tale divieto generale esistesse, non si comprenderebbe per qual ragione la norma lo ricolleghi invece alla trascrizione nei pubblici registri dell’ordinanza repressiva dell’abuso, nei termini sopra spiegati.
Ciò si ricava anche dal successivo art. 46, comma 1, del T.U. , secondo il quale “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria”.
In tali termini, è senz’altro vero che l’immobile parte di una lottizzazione abusiva potrebbe in concreto essere stato costruito senza alcun titolo edilizio, ma ciò non rappresenta, ancora una volta, la regola assoluta. Nel caso di specie, infatti, un permesso di costruire, quello relativo all’originario residence, esisteva, e averlo citato nell’atto notarile salva lo stesso dalla nullità; ancorché, come subito si vedrà, non significa che esso non possa essere irregolare sotto altri profili.
È solo per chiarezza, poi, che si ricorda come il distinto adempimento formale previsto dall’art. 30 – per cui la compravendita di terreni con dati requisiti richiede, a pena di nullità, l’allegazione del certificato di destinazione urbanistica – non riguardi comunque il caso in esame, in cui si tratta di fabbricati.
Nei termini appena descritti, quindi, l’acquirente non si può dire, all’opposto, nemmeno in mala fede per il solo fatto di aver stipulato l’acquisto del bene irregolare, poiché non si tratta di un atto comunque vietato dalla legge, che il notaio dovrebbe astenersi dal rogare.
Bisogna tenere però conto della circostanza per cui sul notaio, in quanto pubblico ufficiale, gravano obblighi di condotta ulteriori, che trascendono il semplice divieto di stipulare atti vietati.
In proposito, la Cassazione ha infatti puntualizzato che il notaio è tenuto anche all’osservanza dei “Protocolli dell’attività notarile”, ovvero di un complesso di regole deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale notarile, la cui violazione ha rilievo disciplinare, e in particolare del protocollo n.13, che si riferirebbe al caso in esame.
In proposito, peraltro, sono necessarie alcune precisazioni.
Il citato protocollo n.13 disciplina infatti la condotta del notaio che venga richiesto di rogare un atto per il quale si potrebbe configurare la lottizzazione abusiva, ma solo nel caso di lottizzazione cartolare, ovvero di atto che abbia per oggetto “trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni di superficie inferiore a 10.000 mq”.
Risulta quindi inapplicabile a casi come il presente, in cui, come ribadito più volte, oggetto dell’atto sia un fabbricato.
In tema di fabbricati, dispone invece il protocollo n. 12, che però, a rigore, di lottizzazione abusiva non parla.
Nei “considerando” iniziali, per quanto qui di interesse, esso esordisce ricordando che “la circolazione dei medesimi si fonda sull’attività assertiva delle parti e non su verifiche dirette, di carattere tecnico, da parte del notaio”, se pur riconosce che questi deve “colmare asimmetrie d’informazione nelle parti in materie complesse come quella urbanistica ed edilizia e rendere quindi le parti stesse consapevoli degli effetti prodotti dalle fattispecie negoziali, anche in rapporto agli scopi pratici perseguiti”.
Ciò posto, il protocollo ricorda le menzioni a pena di nullità di cui si è detto, prescrive di controllare la regolarità della domanda di condono che risulti necessaria in relazione ad un “abuso maggiore”, suscettibile di incidere sulla commerciabilità del bene; prescrive poi un dovere di informazione delle parti e di controllo in relazione agli “abusi minori”.
Non è fatta invece alcuna specifica menzione di casi, come quello in esame, in cui il titolo edilizio sussista, ma l’abuso consista in una lottizzazione abusiva per cambio di destinazione d’uso.
Nei termini descritti, si deve allora concludere che la buona fede dell’acquirente in base all’atto notarile non può essere, in generale, né presunta, né a priori esclusa, ma va accertata caso per caso, secondo le specifiche circostanze, sulle quali quindi il Comune avrebbe avuto onere di motivare.
In proposito, ad un estremo, potrà essere ritenuto in linea di principio in buona fede il cittadino non esperto della materia, il quale acquisti un fabbricato con un atto rogato senza obiezioni da un notaio che di nulla ritenga di avvertirlo, ovvero che, interpellato, lo rassicuri sulla regolarità dell’operazione.
Sul punto, certamente non è condivisibile, nella sua assolutezza, l’affermazione della giurisprudenza, per cui i soggetti che acquistano un bene devono essere cauti e diligenti nell’acquisire conoscenza del suo regime urbanistico ed edilizio, poiché per le previsioni del piano regolatore generale sussisterebbe una presunzione legale di conoscenza, e comunque una facile verificabilità a mezzo di un certificato di destinazione urbanistica.
Si deve infatti osservare, sul punto, anzitutto che il comune cittadino non dispone, di regola, delle cognizioni necessarie a eseguire in proprio tali verifiche, sicché il suo obbligo di diligenza deve ritenersi assolto già al momento in cui egli si sia rivolto e affidato a un professionista qualificato cui abbia rappresentato lealmente i fatti semplici di cui egli sia a conoscenza e lasciando a questi di verificarne le conseguenze.
Si deve ancora osservare come, fin dalla nota sentenza di Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, il nostro ordinamento abbia abbandonato la responsabilità penale in senso stretto, ovvero anche la responsabilità latamente sanzionatoria, secondo il più recente paradigma esegetico adottato dalla C.E.D.U, fondata su presunzioni legali, e invece tuteli la buona fede derivante da non conoscenza che, nel contesto concreto, sia, anche soggettivamente, inevitabile.
Si deve infine aggiungere che la portata del certificato di destinazione urbanistica è diversa, poiché, come si è accennato, risulta dall’art. 30 T.U. che esso riguarda i terreni e non i fabbricati.
All’opposto, la buona fede sarà esclusa, pur senza che dall’atto notarile nulla traspaia, quando risulti che l’acquirente ragionevolmente poteva avere – anche se per altra via – conoscenza dei fatti, per esempio per aver esercitato il diritto di accesso alla relativa pratica edilizia, atto che presuppone una certa competenza tecnica in materia.
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