Monday 04 September 2017 08:09:22
Giurisprudenza Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 27.7.2017
"Anche il secondo motivo, incentrato sulla buona fede della parte appellante al momento dell’acquisto del bene, è fondato e va accolto. Giova ricorda che, come è pacifico in causa, l’abuso fu realizzato dalla società costruttrice, estranea a questo processo, la quale realizzò il complesso immobiliare: la ricorrente appellante si è invece limitata ad acquistare una delle abitazioni così costruite per il proprio uso; e che, ulteriormente, l’originaria ordinanza di demolizione n.77/2008 non risulta essere stata trascritta, con il corollario, da un lato, della sua inopponibilità agli aventi causa nei singoli cespiti immobiliari e, dall’altro lato, della sua inutilizzabilità per desumerne elementi indiziari a riprova dello stato di mala fede degli odierni proprietari (in capo ai quali, anzi, ex art. 1147 cod. civ. “la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”, ma, ovviamente, “la buona fede non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave”).
Ciò stante, l’appellante argomenta dall’orientamento espresso a partire dalla sentenza Corte europea diritti dell’Uomo, sez. II, 20 gennaio 2009, in ricorso n.75909/01, Sud Fondi c. Italia, nonché dalla successiva Corte costituzionale 26 marzo 2015, n. 49 (da cui la citazione che segue), secondo cui, in estrema sintesi, la confisca, intesa come spossessamento del bene, disposta a fronte di una lottizzazione abusiva, ha natura di sanzione intrinsecamente penale e, come tale, anche quando venga in concreto applicata da un’autorità diversa dal Giudice penale, ovvero dall’autorità amministrativa, può essere disposta “solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti”.
Ciò posto, l’appellante invoca la propria buona fede per la circostanza, in sé pacifica, del suo acquisto per mezzo di un atto pubblico notarile, e ritiene che per tal motivo la sanzione non le si potesse applicare.
Tale conclusione è corretta, salve le precisazioni che seguono.
È ben vero che, in termini assoluti, “l'intervento del notaio non garantisce una sorta di "ripulitura giuridica" della originaria illegalità dell'immobile abusivo” (così si esprime la più volte ricordata Cass. pen. n. 51710/2013); se non altro perché l’atto notarile è la normale modalità di acquisto degli immobili, cui si ricorre nella grande maggioranza dei casi, sicché se ad esso si ascrivesse valenza intrinsecamente sanante di ogni illegittimità degli acquisti immobiliari la repressione dell’abuso diventerebbe un fenomeno del tutto eccezionale, limitato ai pochi casi in cui il responsabile della lottizzazione non riuscisse ad alienare gli immobili a terzi.
Nondimeno, per chiarire quando il terzo acquirente, non personalmente responsabile dell’abuso, vada considerato in buona fede, è necessario illustrare in sintesi quale sia, sotto gli aspetti rilevanti, la disciplina di un atto notarile di tal tipo.
Com’è pacifico anche nella prassi, il fabbricato risultante da lottizzazione abusiva non è per ciò solo incommerciabile, sicché non c’è un divieto generale e assoluto per il notaio di rogare un atto che l’abbia a oggetto.
Ciò si ricava anzitutto argomentando a contrario dall’art. 30 del cit. T.U. 380/2001: se tale divieto generale esistesse, non si comprenderebbe per qual ragione la norma lo ricolleghi invece alla trascrizione nei pubblici registri dell’ordinanza repressiva dell’abuso, nei termini sopra spiegati.
Ciò si ricava anche dal successivo art. 46, comma 1, del T.U. , secondo il quale “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria”.
In tali termini, è senz’altro vero che l’immobile parte di una lottizzazione abusiva potrebbe in concreto essere stato costruito senza alcun titolo edilizio, ma ciò non rappresenta, ancora una volta, la regola assoluta. Nel caso di specie, infatti, un permesso di costruire, quello relativo all’originario residence, esisteva, e averlo citato nell’atto notarile salva lo stesso dalla nullità; ancorché, come subito si vedrà, non significa che esso non possa essere irregolare sotto altri profili.
È solo per chiarezza, poi, che si ricorda come il distinto adempimento formale previsto dall’art. 30 – per cui la compravendita di terreni con dati requisiti richiede, a pena di nullità, l’allegazione del certificato di destinazione urbanistica – non riguardi comunque il caso in esame, in cui si tratta di fabbricati.
Nei termini appena descritti, quindi, l’acquirente non si può dire, all’opposto, nemmeno in mala fede per il solo fatto di aver stipulato l’acquisto del bene irregolare, poiché non si tratta di un atto comunque vietato dalla legge, che il notaio dovrebbe astenersi dal rogare.
Bisogna tenere però conto della circostanza per cui sul notaio, in quanto pubblico ufficiale, gravano obblighi di condotta ulteriori, che trascendono il semplice divieto di stipulare atti vietati.
In proposito, la Cassazione – e in argomento è esemplare sempre la sentenza citata – ha infatti puntualizzato che il notaio è tenuto anche all’osservanza dei “Protocolli dell’attività notarile”, ovvero di un complesso di regole deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale notarile, la cui violazione ha rilievo disciplinare, e in particolare del protocollo n.13, che si riferirebbe al caso in esame.
In proposito, peraltro, sono necessarie alcune precisazioni.
Il citato protocollo n.13 disciplina infatti la condotta del notaio che venga richiesto di rogare un atto per il quale si potrebbe configurare la lottizzazione abusiva, ma solo nel caso di lottizzazione cartolare, ovvero di atto che abbia per oggetto “trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni di superficie inferiore a 10.000 mq”.
Risulta quindi inapplicabile a casi come il presente, in cui, come ribadito più volte, oggetto dell’atto sia un fabbricato.
17. In tema di fabbricati, dispone invece il protocollo n. 12, che però, a rigore, di lottizzazione abusiva non parla.
Nei “considerando” iniziali, per quanto qui di interesse, esso esordisce ricordando che “la circolazione dei medesimi si fonda sull’attività assertiva delle parti e non su verifiche dirette, di carattere tecnico, da parte del notaio”, se pur riconosce che questi deve “colmare asimmetrie d’informazione nelle parti in materie complesse come quella urbanistica ed edilizia e rendere quindi le parti stesse consapevoli degli effetti prodotti dalle fattispecie negoziali, anche in rapporto agli scopi pratici perseguiti”.
Ciò posto, il protocollo ricorda le menzioni a pena di nullità di cui si è detto, prescrive di controllare la regolarità della domanda di condono che risulti necessaria in relazione ad un “abuso maggiore”, suscettibile di incidere sulla commerciabilità del bene; prescrive poi un dovere di informazione delle parti e di controllo in relazione agli “abusi minori”.
Non è fatta invece alcuna specifica menzione di casi, come quello in esame, in cui il titolo edilizio sussista, ma l’abuso consista in una lottizzazione abusiva per cambio di destinazione d’uso.
18. Nei termini descritti, si deve allora concludere che la buona fede dell’acquirente in base all’atto notarile non può essere, in generale, né presunta, né a priori esclusa, ma va accertata caso per caso, secondo le specifiche circostanze.
Ad un estremo, in linea di principio potrà essere ritenuto in buona fede il cittadino non esperto della materia, il quale acquisti un fabbricato con un atto rogato senza obiezioni da un notaio che di nulla ritenga di avvertirlo, ovvero che, interpellato, lo rassicuri sulla regolarità dell’operazione.
In proposito, certamente non è condivisibile, nella sua assolutezza, l’affermazione contenuta a p. 23 della sentenza di primo grado (che sul punto richiama conforme giurisprudenza), per cui i soggetti che acquistano un bene devono essere cauti e diligenti nell’acquisire conoscenza del suo regime urbanistico ed edilizio, poiché per le previsioni del piano regolatore generale sussisterebbe una presunzione legale di conoscenza, e comunque una facile verificabilità a mezzo di un certificato di destinazione urbanistica.
Si deve infatti osservare, sul punto, anzitutto che il comune cittadino non dispone, di regola, delle cognizioni necessarie a eseguire in proprio tali verifiche, sicché il suo obbligo di diligenza deve ritenersi assolto già al momento in cui egli si sia rivolto e affidato a un professionista qualificato cui abbia rappresentato lealmente i fatti semplici di cui egli sia a conoscenza e lasciando a questi di verificarne le conseguenze.
Si deve ancora osservare come, fin dalla nota sentenza di Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, il nostro ordinamento abbia abbandonato la responsabilità (penale in senso stretto, ovvero anche latamente sanzionatoria, secondo il più recente paradigma esegetico offerto, o imposto, dalla C.E.D.U) fondata su presunzioni legali, e invece tuteli la buona fede derivante da non conoscenza che, nel contesto concreto, sia (anche soggettivamente) inevitabile.
Si deve infine aggiungere che la portata del certificato di destinazione urbanistica è diversa, poiché, come si è accennato, risulta dall’art. 30 T.U. che esso riguarda i terreni e non i fabbricati.
All’opposto, la buona fede sarà esclusa, pur senza che dall’atto notarile nulla traspaia, quando risulti che l’acquirente ragionevolmente poteva avere – anche se per altra via – conoscenza dei fatti, per esempio per aver esercitato il diritto di accesso alla relativa pratica edilizia, atto che presuppone una certa competenza tecnica in materia.
Due punti ulteriori vanno evidenziati.
In primo luogo, quanto sopra si riferisce soltanto alla confisca del bene, ovvero all’effetto per il quale la colpevolezza è espressamene richiesta.
Non opera invece per gli altri effetti previsti dall’art. 30 T.U., ovvero per il divieto di proseguire le opere e di disporre del bene dopo la trascrizione, trattandosi di effetti obiettivamente dipendenti dal carattere abusivo del bene e volti non a sanzionare, ma a impedire ulteriori conseguenze dell’abuso stesso.
In secondo luogo, in base alla generale presunzione di non colpevolezza (oltre che del principio generale di cui è espressione l’art. 1147 cod. civ. a prescindere dalla sua puntuale applicabilità alla vicenda in esame), è l’amministrazione, nell’emanare l’ordinanza di cui all’art. 30 T.U., a dover provare la mala fede del terzo acquirente, che in mancanza di ciò non potrebbe essere sanzionato.
Applicando i principi appena esposti al caso concreto, il motivo va accolto, perché l’ordinanza non contiene alcuna motivazione sulla responsabilità dei destinatari."
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