Tuesday 05 December 2017 08:21:23
Giurisprudenza Giustizia e Affari Interni
nota a sentenza degli Avv. Luca Petrucci e Duccio Poggianti
Lo scorso 18 ottobre sono state depositate le motivazioni della sentenza del processo c.d. “Mafia Capitale”.
La decima sezione del Tribunale di Roma, nelle 3200 pagine del provvedimento, pur riconoscendo i singoli episodi di corruzione contestati, sconfessa la tesi della Procura sul carattere mafioso dell’associazione facente capo a Buzzi e Carminati.
Al tema della natura mafiosa o meno dell’associazione la Corte dedica un approfondito passaggio della sentenza nel quale, partendo da una dettagliata ricostruzione giurisprudenziale del reato di associazione mafiosa e facendo propria un’interpretazione restrittiva dello stesso, afferma l’insussistenza dell’ipotesi di cui al 416-bis, riconducendo i fatti contestati all’ipotesi, meno grave, di associazione per delinquere.
I Giudici romani, nel solco tracciato dalla più recente giurisprudenza, affermano come al fine di identificare come mafioso un fenomeno associativo, non debba più farsi riferimento al concetto di “mafia tradizionale” e pertanto a quei soli fenomeni che si sono storicamente sviluppati in determinate aree del paese (quali mafia, camorra, ‘ndrangheta ecc).
Ciò che contraddistingue un’associazione di tipo mafioso è infatti non tanto il luogo d’origine del fenomeno delinquenziale, quanto la modalità di esplicazione dell’attività criminosa: il metodo mafioso.
Il Tribunale di Roma, infatti, afferma che ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 416-bis “non è indispensabile che l’associazione abbia origine mafiosa o sia ispirata o collegata necessariamente alla mafia”, ma occorre che vi sia una associazione che “indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati” esprima “il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione, che rappresenta l’elemento strutturale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione”. L’associazione mafiosa, per il solo fatto di esistere ed a prescindere dal compimento di singoli atti posti in essere dagli associati, deve avere una effettiva capacità prevaricatrice in grado di produrre un effetto di intimidazione diffusa.
Tale carica intimidatoria autonoma deriva, per le mafie tradizionali dalla pregressa pratica criminale attuata in un determinato territorio e cioè dalla “fama criminale” costruita nel tempo; per le mafie non tradizionali occorre, invece, volta per volta accertare “se si siano verificati atti di violenza e/o di minaccia che abbiano sviluppato intorno al gruppo un alone permanente di diffuso timore, tale da determinare assoggettamento ed omertà e tale da consentire alla associazione di raggiungere i suoi obiettivi proprio in conseguenza della ‘fama di violenza’ ormai raggiunta”.
Ebbene, dopo queste considerazioni di ordine generale, il Tribunale, entrando nel vivo delle questioni oggetto del processo, esclude la sussistenza di un’unica organizzazione criminale, ritenendo al contrario che siano da individuare due organizzazioni ben distinte, una facente capo a Carminati e avente ad oggetto attività di recupero crediti e l’altra facente capo a Buzzi operante nel settore degli appalti pubblici.
Secondo i Giudici romani, se da un lato in capo alle due associazioni debba escludersi qualsiasi “mafiosità derivata” (da altre organizzazioni criminali tradizionali), non può neppure ritenersi che possa individuarsi una mafiosità autonoma dei due gruppi.
Per quanto riguarda il gruppo capeggiato da Carminati, infatti, la Corte afferma come gli atti di intimidazione si collochino “in un contesto relazionale e territoriale particolarmente limitato” e non siano in grado di produrre una generalizzata situazione di assoggettamento e omertà.
Anche per quanto riguarda l’associazione facente capo a Buzzi, i Giudici romani ritengono che non possa parlarsi di mafia, bensì di un’aggressiva organizzazione criminale da profitto che, pur di non rinunciare ai vantaggi economici derivanti da appalti e commesse pubbliche, non esita a ricorrere a metodi violenti ed intimidatori.
I giudici, in conclusione, hanno ritenuto che le modalità di esplicazione dell’attività criminosa da parte delle due organizzazioni non siano riconducibili al metodo mafioso non essendo emersa alcuna carica intimidatrice propria delle strutture associative in grado di determinare nella collettività un grave e perdurante stato di timore così diffuso da produrre una generalizzata situazione di assoggettamento e omertà nel contesto territoriale.
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